Tacere è l’unico modo per onorare ciò che ci supera

Scritto il 07/07/2025
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Nel giorno dopo la tragedia – il giorno in cui il tempo si attarda atono sull’orlo di una ferita – si leva, immancabile, il brusio del dire. Come se il dolore, per essere reale, esigesse il commento; come se l’irreparabile attendesse, per giustificarsi, l’interpretazione di chi non ha conosciuto né il grido né l’abisso. Eppure, proprio nel giorno dopo, è il silenzio a essere l’unica forma di rispetto e di verità.

Il dire, nel giorno dopo, si fa sovente travestimento: si ammanta di pietà, di empatia, di presunta lucidità analitica. Ma non è che un modo per tenere a distanza l’orrore, per renderlo pensabile, quindi sopportabile, quindi dimenticabile. Il linguaggio, in questi casi, diventa lo strumento con cui l’ordine simbolico cerca di riprendersi ciò che l’evento ha disarticolato. Ma non tutto ciò che accade può o deve essere ricondotto a senso.

La morte violenta, il suicidio, la tragedia estrema – sono eventi che eccedono. Eccedono la logica, eccedono la prassi, eccedono il commento. Sono fenditure nel tessuto della realtà, ferite che non si rimarginano con il balsamo delle parole. Voler spiegare, analizzare, commentare – subito, il giorno dopo – è spesso una forma di difesa narcisistica: ci preserva dall’essere toccati, contaminati, scossi. Ci illude che il male possa essere ordinato entro categorie sociologiche, psicologiche, culturali. Ma così facendo lo si disinnesca, lo si tradisce.

Il silenzio, invece, è atto ontologico. È il modo in cui si onora ciò che ci supera. Tacere è riconoscere che non ci appartiene la comprensione dell’evento, che non tutto è disponibile all’interpretazione.

Il silenzio custodisce il mistero dove la parola rischia di profanare. Esso non è vuoto, ma spazio sacro; non inerzia, ma attenzione radicale. Tacere è fare spazio all’altro, non nella sua biografia o nel suo dolore già elaborato, ma nel suo enigma.

Nel giorno dopo, la parola dovrebbe essere sospesa come in un sabato metafisico: tempo della non-creazione, tempo dell’attesa. Parlare subito, troppo, è affrettare la risurrezione mentre il corpo è ancora nel sepolcro. È mancare di rispetto alla profondità del reale, che chiede prima di tutto di essere abitata, non spiegata.

C’è un tempo per la parola e un tempo per il silenzio, dice Qoèlet. E il tempo immediatamente successivo al trauma è – deve essere – tempo di silenzio. Un silenzio che non è vuoto comunicativo, ma pienezza dell’essere. Il silenzio del giorno dopo è l’unica risposta all’urlo che lo ha preceduto. Non per spiegare, ma per non dissipare. Non per giustificare, ma per custodire. Non per comprendere, ma per restare.

In un’epoca di parole inflazionate, di spiegazioni pronte, di commenti compulsivi, il silenzio resta l’unico gesto di verità. Perché solo chi tace davvero ha ascoltato. E solo chi ha ascoltato può, forse, un giorno, parlare senza ferire.

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